Omaggio a Mario Giacomelli
Foto: Mario Giacomelli
Poesia: Cesare Pavese
Declamazione: Vittorio Gassman

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
Questa morte che ci accompagna Dal mattino alla sera, insonne Sorda, come un vecchio rimorsoO un vizio assurdo i tuoi occhi
Saranno una vana parola Un grido taciuto, un silenzio Così li vedi ogni mattina Quando su te sola ti pieghi Nello specchio o cara speranza Quel giorno sapremo anche noi Che sei la vita e sei il nullaPer tutti la morte ha uno sguardo
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Sarà come smettere un vizio Come vedere nello specchio Riemergere un viso morto Come ascoltare un labbro chiuso Scenderemo nel gorgo muti
Cesare Pavese
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è la serie che prende il nome dalla omonima poesia di Cesare Pavese. Composta durante la seconda seduta fotografica di Mario Giacomelli nell’ospizio di Senigallia (1966/68), viene ampliata anche con le foto della precedente seduta (’54/56).
“Di tutte le cose che ho fatto penso che questa sia la ricerca più interessante; ho provato infatti più emozioni stando a contatto con questo ambiente che in tutte le altre ricerche messe insieme. […] Perché? Dopo avere lottato tutta la vita, perché la fine di una vita deve essere questa, perché deve finire in questi ambienti, in queste istituzioni sballate?
[…] Queste foto sono più realiste, anche nella tecnica, ho scelto un modo diverso di stampa [stampa contrastata su carta extra vigorosa], c’è un taglio essenziale, che trovi anche nelle altre immagini, semplicemente queste sono più vere delle altre. Più che quello che avevo davanti agli occhi, volevo rendere quello che avevo dentro di me, quello che nasceva dentro man mano che mi ambientavo dentro queste cose: questa paura di invecchiare, non di morire, questo disgusto per il prezzo con cui viene pagata una vita.
[…] Ho fatto in modo di essere uno di loro, come loro, non sentivano più la macchina fotografica addosso”.
(A. C. Quintavalle, Mario Giacomelli, Feltrinelli, Milano 1980).
“Le foto all’ospizio sono il modo con cui mio padre ha voluto addentrarsi al reale, sin sotto quelle carni sfatte addentate da riprese ravvicinate e dentro a quelle lenzuola corrose dal flash dai bianchi che mangiano, nel dolore e nella solitudine di quelle povere persone abbandonate a se stesse negli ultimi anni di vita. I neri chiusi che sembrano baratri su cui le anziane stanno per cadere, fanno sentire come è grande la solitudine.
Ricordo, sebbene all’epoca avessi pochi anni, mia nonna Libera che faceva la lavandaia all’ospizio di Senigallia, a volte lei mi portava con sé. Entravo con lei in una stanza immensa, fredda, umida. Ricordo l’acqua che era in terra, tanta, era quella che fuoriusciva dalle vasche dei panni. Nella stanza c’erano diversi lavabi, ogni donna aveva il suo con una pedana di legno per non stare con i piedi a mollo. In un angolo vi erano montagne di lenzuola sporche di sudori ed escrementi e il puzzo si mischiava col profumo del sapone. Le lavandaie non avevano guanti e l’acqua certo non era calda. Ricordo queste lenzuola sollevate a forza, dalla vasca e sbattute sul ripiano per essere sfregate, gli schizzi arrivavano da tutte le parti. Benché fossi piccola, provavo un sentimento di pena nel vedere mia nonna lì davanti a quel “trocco” (pedana), come lo chiamava lei, e mi sembrava così piccola e indifesa”.
Mario Giacomelli.